Intime confessioni offerte adagiate su un flusso emozionale che si snoda tra lievi sussurri e impetuosi crescendo. L’incontro con la profonda e drammatica vocalità di Matt Finney conduce il prolifico William Ryan Fritch verso soluzioni ancor più enfatiche del suo estro dai tratti sempre più cinematici.
È avvincente e pienamente riuscita la combinazione dell’intenso recitato dalle striature polverose di Finney e le trame dai tratti epici del musicista americano, generando un racconto che muove tra sguardi nostalgici e incalzanti spirali emotive plasmate da un andamento parallelo ma non coincidente tra le parole e le trame sonore. Fritch utilizza tutte le varianti del suo ampio lessico per tradurre in musica l’intensità del racconto declamato, distribuendo con estrema cura linee di banjo che hanno il sapore del ricordo che riemerge lento, tessiture di archi che aprono squarci di trascinante lirismo e modulazioni atmosferiche a tratti evanescenti e occasionalmente granulosi e lievemente obliqui.
Giunti in fondo ci si ritrova davanti gli occhi l’intera sequenza di un film le cui vivide immagini non hanno necessità di essere catturate su alcun supporto fisico.