
Obliqua e rarefatta intersezione di suggestioni, decostruita sintesi di un lessico che vuole essere innanzitutto emozionale espressione di un sentire profondo. È nelle pieghe di un territorio sonico essenziale e contaminato che si sviluppa lo straniante universo plasmato da Benjamin Van Vliet nella sua terza solitaria opera a firma Microwolf, breve e concisa immersione in un cantautorato atipico che fonde istanze eterogenee attraverso un lavoro di minuziosa sottrazione.
Raccolte in poco più di mezz’ora, le sette traiettorie cesellate dal musicista olandese costruiscono un immaginario vitale, morbidamente pulsante, caratterizzato da una vocalità sospesa tra narrazione e canto. È un susseguirsi di atmosfere surreali, di racconti che si nutrono di pochi elementi scelti ed assemblati per assumere la forma di brani scanditi da battiti profondi e tessiture armoniche scarne che avanzano su un fondale granuloso (“Mara”, “Sad Collector”), ipnotiche nenie che emergono da saturi bordoni (“Emaho/Colour”) o sussurrati notturni pervasi da dolce malinconia (“My Cauliflower Ears”) o tangibile inquietudine (“Musta I Be Bound?”).
È un incedere lieve ed irregolare tra paesaggi stralunati, canzoni offerte ad una luna pallida che indulgente rischiara una creatività quieta eppure intensamente fervida e affascinante.