
È interessante il modo in cui le radici possano riaffiorare prepotentemente dopo essersi allontanati per un periodo sufficientemente lungo dalla terra d’origine. In qualche modo la distanza e una prospettiva differente aiutano a mettere a fuoco, rivitalizzandolo, ciò da cui ci si è staccati. Questa forma di recupero, l’esigenza di ritrovare se stessi alla luce di un’esperienza ampliata è ciò da cui muove il lavoro d’esordio di Adela Mede, alchimista slovacca cresciuta al confine con l’Ungheria e trasferitasi a Londra per studiare musica alla Goldsmiths.
Imperniato sull’utilizzo della sua voce – con cui ha iniziato a sperimentare durante il periodo inglese – “Szabadság” si configura come una straniante immersione nei territori e nella cultura dell’infanzia composto da una affascinante sequenza di visioni oblique in cui nenie, loop, field recordings ed elettronica scheletrica si intersecano senza sosta. “Háromszorra Jövök Össze” mette subito in chiaro le coordinate del viaggio con il suo spiazzante succedersi di quieti suoni ambientali, frammenti ritmici, loop e nudo canto dal sapore folkloristico. In “Spolu” questa mescolanza vira inaspettatamente ed in modo felice verso orizzonti pulsanti marcati segnando il momento più accessibile di un itinerario volutamente indefinito e frammentario. In tale scenario trovano piena giustificazione i tre interludi interposti tra le prime quattro tracce, ulteriore amplificazione del senso di sradicamento evidenziato dall’alternanza di tre differenti lingue (inglese, ungherese, slovacco).
Tutto suona al tempo stesso confortante e distorto, luminoso e crepuscolare, inscenando un ritorno a casa vorticoso in cui ogni dettaglio rivela una nuova visione di ciò che è incastrato nei ricordi più lontani.