CHAIGIDEL & NERATERRÆ “Lama​š​tu”

[Cyclic Law]

Tra paesaggi sulfurei immersi in un’oscurità penetrante e droni profondissimi, taglienti come la più affilata delle lame, si intrecciano le visioni simbiotiche di Mattia Giovanni Accinni/CHAIGIDEL e Alessio Antoni/NERATERRÆ. Il risultato di una simile convergenza è un rituale dark ambient esoterico, intitolato alla demoniaca divinità mesopotamica figlia del dio Anu e amante di Pazuzu, immersione totalizzante in un ambiente d’ascolto sinistro fatto di risonanze acustiche, percussioni ed enigmatiche modulazioni vocali.

Doumbek, balaban, shofar e campane tibetane sono le fonti da cui vengono estratte le trame organiche che scalfiscono bordoni impenetrabili, vischiosi come pece nerissima, determinando un insieme tenebroso reso ancor più indefinito dall’estendersi di mantra e canti ancestrali. Mistero ed allucinazione emergono da questo substrato denso, che nella liturgia ipnotica di Mac Benach giunge al suo apice di cupa solennità innalzata in un’atmosfera algida, priva di qualsiasi traccia di redenzione. Una messa nera inquietante celebrata con inattaccabile dedizione.

Music For Sleep “Destini”

[rohs! records]

L’incedere ipnotico di un nastro il cui suono gradualmente si disfa consegnandone la fragile bellezza al ricordo. È immediato accostare l’ultima produzione breve di Andrea Porcu/Music For Sleep con il capolavoro basinskiano, opere innervate su principi comuni declinati in forme a tratti diametralmente opposte. Dove The Disintegration Loops ricerca l’emozione nell’incedere solenne, potenzialmente infinito, Destini definisce una traiettoria circoscritta il cui decadimento giunge parziale senza mai compiersi oltre una data misura. Le stille pianistiche permangono nitide, il nucleo melodico evidente, parzialmente intaccato, mai soffocato dalla polvere, dalle interferenze generate dalla rovina inevitabile.
È la grazia a permanere, ad imprimersi con immediatezza in profondità, essenza di un torrente ambientale placido che accoglie e riverbera la lezione seminale del verbo enoiano.

James Murray    “Soundflowers”

[Slowcraft Records]

Una lettera d’amore per omaggiare la bellezza sfaccettata della natura, frutto di una virtuosa sinergia uomo/macchina. È questa l’essenza dell’ultimo tracciato aurale plasmato da James Murray per la sua Slowcraft, itinerario sintetico-analogico concepito come un flusso unitario in sei capitoli generato intrecciando scrittura e composizione generativa.

Affidando al sequencer matematico Torso T-1 i nuclei melodici creati utilizzando diversa strumentazione analogica e guidandone lo sviluppo, il musicista inglese costruisce strutture armoniche rilucenti, intarsiate da sottili increspature e tendenti ad una gentile saturazione. Come d’abitudine è la ricerca di un’emozionalità preminente ad emergere tra le spire vaporose – esemplare in tal senso è la struggente No More Roses -, ma all’interno dell’iter narrativo trovano posto tasselli scintillanti dal sapore cosmico (Meadowsweet) e momenti di morbida inquietudine definiti da modulazioni umbratili (Forget Me Not).

Tutto è intenso, privo di pause e tendente a mantenersi aereo. Un inno al vivere dagli echi solenni che si irradia saturando l’ambiente d’ascolto.

Fabio Orsi   “Cinque movimenti per A.”

[13/Silentes]

Immersi in un giardino sulla litoranea salentina in una notte d’agosto.  A guidare il suono è Fabio Orsi, a suggerirgli la direzione gli oltre vent’anni di esperienza nel ideare e modulare flussi atmosferici variamente coniugati.
Il tracciato è unico, scandito in cinque fasi ispirati in egual modo dal territorio circostante e dalla vastità del cielo stellato che svetta sulla testa. La partenza è lieve, contraddistinta da luminescenze sintetiche – invariante dell’intero viaggio – che gradualmente si impossessano di un’ambiente d’ascolto ancora rarefatto. È melodia gentile fatta di loop e campioni di corde pizzicate, sentori blandi della tradizione che scrutano già la profondità del cosmo a cui il suono tende. A spingerla, pulsazioni morbide quanto profonde, parzialmente sostituite nel tratto centrale da percussioni ancestrali che conducono al cospetto dell’acqua prima di proiettarsi verso un’oscurità tesa.
Le modulazioni elettroniche si impennano scorrendo fluide, l’ambient si tinge di lezioni kraut divenendo ipnoticamente siderale, priva di ansie ed inquietudini, in balia dei misteri del cosmo nella cui polvere si spegne. Rimane spazio per un’ultima ariosa danza sintetica che torna alla terra osservandola dall’alto.

Remo De Vico   “Finally The Moon”

Cronache dal satellite che vigila sulle nostre notti fatte di sospensione ed incanto.
È un viaggio attraverso paesaggi lunari ammalianti quello diretto da Remo De Vico in Finally The Moon, una lunga suggestione nutrita da un retrofuturismo che attinge dall’immaginario sci-fi quanto dalle nostrane sonorizzazioni – tra le tante torna alla mente L’uomo nello spazio di Piero Umiliani – raccolte nell’ampio catalogo della library music degli anni 70.

Sintetizzatori e nastri sono gli arnesi utilizzati per dare vita ad una sinestesia che affida al suono l’incombenza di formulare immagini, proiettando in territori celesti in bilico tra mistero e giocosità cesellati in maniera essenziale. Pochi elementi messi in equilibrata relazione, a cui occasionalmente si sommano contributi esterni volti a conferire sfumature ulteriori pienamente sintonizzate sulle atmosfere preminenti del lavoro. Prezioso in tal senso è soprattutto l’apporto acustico di modulazioni vocali e clarinetto iniettato da Mariagaia Di Tommaso nella danza sintetica di apertura (Gurù dalle zampe di capra), così come risulta efficace la trama pulsante del contrabbasso di Carlo Cimino a scandire l’ambient-drone rilucente ed ipnotico di Il tempo sospeso di pallidovolto.

Tra nenie melodiche da carillon, destrutturate da interferenze elettriche (Codex lentiginosus), riverberi profondi finemente screziati (Endless dream, con la partecipazione di Dario Della Rossa) e risonanze vintage interpolate da dissonanze (Il verderame, che vede ai synth Massimo Palermo), quello messo in scena è un itinerario nel quale perdersi immaginando derive magiche sulla superficie argentata di un corpo celeste a portata di sogno.

Fabrizio Modonese Palumbo “ELP”

[Dissipatio]

Sperimentazione e volontà di trascendere lo specifico ambito creativo sono pulsioni comuni rintracciabili nell’attività artistica di Fabrizio Modonese Palumbo e Paola Bianchi e la distanza da soluzioni “convenzionali” è nettamente avvertibile sia nei suoni dell’uno quanto nelle coreografie dell’altra. Basata su questi presupposti, la sinergia tra i due non può che risultare fertile generatrice di una traiettoria univoca in cui tracciati aurali e movenze del corpo interagiscono in modo imprevedibile.

Depurato dalla relazione con la danza, nella sua autonomia il suono rimane pienamente efficace, proponendo un’escursione immersiva in un universo sensoriale fatto di droni penetranti, frequenze ruvide e chitarre atmosferiche affilate come un algido bisturi (Ekphrasis) oppure ossessivamente percussive (Energheia). Le strutture erette sono architetture risonanti cariche di tensione che si stagliano rilucenti in un’oscurità profonda – ottundente quella che accoglie la vertigine dark-ambient di Other Otherness – , alcune compatte e stereometriche (O_N), altre estese e cangianti fino a divenire paesaggio indefinito nutrito da umori mutevoli anche se tendenzialmente sempre spigolosi (NoPolis).

Quello plasmato da Modonese Palumbo   è un territorio tutt’altro che confortevole, spesso decisamente respingente e proprio per questo idoneo a coniugarsi con un progetto distante dagli stereotipi e incentrato su una ricerca espressiva che punta all’emozione per vie traverse.

Gold Mass   “Reverb”

Secondo estratto in anteprima dal nuovo album di Gold Mass in uscita dopo l’estate.

Se Flare metteva in risalto una maggiore attitudine a sviluppare pattern ritmici marcate a scandire la vocalità morbida di Emanuela Ligarò, Reverb offre uno spaccato ammaliante sull’aspetto più atmosferico del lavoro. Pulsazioni downtempo d’ispirazione trip-hop segnano una trama sintetica umbratile, ma mai cupa, accompagnando uno spoken word profondo che “evidenzia l’idea fuorviante che l’amore, la considerazione e l’affetto siano obiettivi da guadagnare, da meritare, qualcosa di cui non siamo degni solo perché siamo vivi, come esseri umani”.

La volontà di esprimersi liberamente, sciolti dal giudizio altrui, ed affermare come persona unica si cristallizza nella danza di un uomo all’interno di uno spazio urbano marginale sotto l’azione del vento catturata dal Cottonbro Studio di San Pietroburgo, autore del videoclip che accompagna il lancio del singolo.

Eloisa Manera   “Duende”

[Almendra Music]

“Il duende non sta nella gola; il duende monta dentro, dalla pianta dei piedi. Vale a dire, non è questione di capacità ma di autentico stile vivo; vale a dire, di sangue; di antichissima cultura, e, al contempo, di creazione in atto. […] Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa, che rompe gli stili, che si appoggia al dolore umano inconsolabile, che fa sì che Goya, maestro dei grigi, degli argenti e dei rosa della miglior pittura inglese, dipinga con le ginocchia e i pugni con orribili neri bitume”

Federico Garcìa Lorca

Immergersi nell’io, risvegliare l’essenza abbandonandosi ad un sentire crudo, privo di filtri e sovrastrutture. È nella purezza dell’istante, nel germe vitale dell’improvvisazione che prende forma il secondo lavoro di Eloisa Manera, talentuosa violinista italo-spagnola segnalatasi con la pubblicazione del suo pregevole disco di debutto, oltre che per le numerose collaborazioni di prestigio collezionate negli anni (tra gli altri Lang Lang, Herbie Hancock, Noa, Marlene Kuntz ).

Il punto d’origine, il modo in cui il suono è germinato, segna la differenza preminente tra le due opere realizzate. Se Rondine evidenziava un processo di composizione e produzione puntuale e puntiglioso, ideato e curato nel dettaglio, Duende lascia spazio ad un fluire irruento – messo a punto in presa diretta e solo successivamente fissato – tendente ad un’emozionalità traboccante, che dopo il prologo astratto e un primo tassello ancora atmosferico, inizia a rivelarsi prepotente. Il suono del violino diventa risonanza intima che attinge alla memoria, personale e non, per trovare forme espressive peculiari in cui retaggi classici, jazz, tradizione popolare e avanguardia si fondono in un insieme tormentato e coeso. Le trame dello strumento seguono sensazioni cangianti, a tratti divergenti, ma sempre permeate da una tensione vitale inscindibile, sia che si tratti di evoluzioni oblique dal tono trattenuto (Duende 2, Duende 3) o di progressioni pirotecniche nutrite da un virtuosismo dirompente (Duende 6).

Le tracce del passato diventano pienamente riconoscibili quando accanto alle tessiture dello strumento emerge il canto (Duende 7) a ricordare quella guerra civile spagnola di cui i nonni dell’artista sono stati testimoni, ma sono ugualmente presenti come echi strumentali debitori di un folclore imprescindibile nella formazione artistica e culturale della Manera. La sequenza così costruita, fissata attraverso una sessione di registrazione compatta – curata ancora una volta con l’ausilio prezioso di Almendra – ha le sembianze di una cerimonia, di un rito misterico che culmina in una lunga deriva dal sapore catartico (Duende 8).

Quando il viaggio termina ha inizio il suo contraltare, una sorta di ritorno che cattura l’energia fin qui profusa comprimendola in paesaggi ambient oscuri. Al Duende si controppone l’Espiritu disegnato da Giovanni Di Giandomenico – autore palermitano di stanza a Parigi appartenente al nucleo di artisti della factory siciliana – quale scia sintetica che ingabbia i registri alti dello strumento contrapponendo una distesa di vibrazioni basse profonde che ne distillano il portato emozionale fino a ridurlo ad un riverbero essenziale. Ne scaturisce una deriva totalizzante, da esperire nella sua forma dicotomica abbandonandosi interamente alla suggestione profonda indotta dal suono.

Vitolo | Buoninfante | De Rosa   “171115​-​203145”

[Stochastic Resonance]

Si diche che una squadra vincente non si debba cambiare, ma ampliarne l’impianto consolidato attraverso nuovi innesti validi può condurre ad ottimi risultati. È il caso di 171115​-​203145, opera sonora che vede nuovamente insieme Anacleto Vitolo e Luca Buoninfante e a cui si affianca per l’occasione Mariaceleste De Rosa. Territorio d’elezione è sempre quello della ricerca di un punto d’incontro tra i differenti stilemi degli autori coinvolti, intersezione feconda tra musica concreta, elettronica ed elettroacustica operata affidandosi all’improvvisazione ragionata.

La grana dei suoni trovati di Buoninfante e le risonanze alchemiche degli strumenti autocostruiti di De Rosa innescano la definizione di paesaggi profondamente materici immersi in un substrato astratto fatto di modulazioni sintetiche scintillanti, glitch e frequenze ruvide, che muovendosi tra i canali audio conferiscono profondità all’insieme. Le [de]costruzioni risultanti disegnano un ambiente tridimensionale tagliente, pervaso da riverberi algidi e costantemente sul punto di implodere, architetture aurali dinamiche in equilibrio precario, sempre pronte a trovare una nuova configurazione.

La vorticosità delle forme è ipnotica e trova idonea eco visiva nelle placche in ottone realizzate da Mariantonietta Clotilde Palasciano, che campeggiano in copertina. Come i soundscapes messi a punto dal trio, i sedici pezzi creati dall’artista costruiscono una sequenza al tempo stesso coesa e cangiante, in cui ogni tassello spicca per la sua unicità e la perfetta aderenza ad un itinerario chiaramente individuato. Un viaggio visionario gratificante per navigatori impavidi e pronti a perdersi nei labirinti del suono.

Sara Persico   “Boundary”

[Karlrecords]

Una scia oscura di frequenze ruvide e modulazioni vocali decostruite, intrecciate in una spirale penetrante dall’impatto ottundente. Anticipazione di una prossima prova sulla lunga distanza – sempre curato da Karlrecords – Boundary è il primo tassello discografico di Sara Persico, artista partenopea di stanza a Berlino il cui esordio era ampiamente atteso vista l’esperienza accumulata in anni di esibizioni live e attraverso numerose collaborazioni più o meno eccellenti.

Le sei tracce di questa prima prova introducono in un universo noise/ambient fatto di architetture elettroniche labirintiche pervase da frammenti scintillanti e linee ritmiche irregolari su cui svettano le sperimentazioni  di una voce malleabile, gestita con dovizia. Aderendo alle esigenze del formato breve, l’itinerario parte senza mediazioni, subito orientato a colpire nel segno con l’incedere lancinante della title-track, la disgregazione gelida di Exit e quella vorticosa di Under The Raw Light.
Gli ingredienti per un itinerario più ampio ci sono tutti, le premesse sono molto più che incoraggianti. Restiamo in febbrile attesa, pronti a lasciarci sedurre da un immaginario pirotecnico.