Atsuko Hatano & Midori Hirano “Water Ladder”

[Alien Transistor]

Dopo aver collaborato alle rispettive uscite soliste e condiviso il palco nel 2019 la sinergia tra Atsuko Hatano e Midori Hirano trova infine inevitabile cristallizzazione in una  prima produzione interamente condivisa scaturente da un intenso scambio a distanza e una conclusiva sessione di registrazione alla sonihouse di Nara.
Mosse dalla comune attitudine a definire paesaggi atmosferici in cui sonorità acustiche e frequenze sintetiche si intersecano costantemente, le due artiste hanno innescato un processo compositivo gradualmente proiettato verso una formulazione sempre più libera da strutture stringenti. Come dichiarato dalle autrici l’elaborazione in remoto ha finito per inglobare interferenze e distorsioni impreviste assunte come elemento peculiare attraverso cui dare vita ad un immaginario fluido in costante mutazione.
La materia elettroacustica assume pertanto forme cangianti che si muovono tra visioni stranianti di una controra fatta di sibili, fluttuazioni di archi e scarne cadenze pianistiche (“Summer Noise”), armonie post-classiche incanalate in sequenze decomposte (“Cotton Spheres”) ed esplorazioni dissonanti (“Water Ladder”). Solamente nell’atto conclusivo (“Cascade”) questo turbinio ibrido trova un andamento più coerente scivolando lentamente verso una quieta dissoluzione.
Primo atto – speriamo non unico – di un’intesa fertile dalla quale è lecito attendersi ulteriori sviluppi.

Gianluca Ceccarini “Starving Night”

[Laverna]

Nel silenzio profondo della notte un rintocco, un riverbero, una frequenza – per quanto diluita – può improvvisamente divenire l’inizio di un itinerario narrativo immersivo. Questa possibilità di essere innesco è la qualità preminente  delle immagini sonore disegnate da Gianluca Ceccarini nel suo album d’esordio pubblicato dalla net-label Laverna, ammaliante fil rouge di un tracciato elettroacustico avvolgente.

Bordoni nebulosi, che si espandono come foschia sulfurea modulata da una interferenze rumorose di  grana variabile, sono l’elemento attorno a cui l’antropologo/liutaio fondatore del collettivo Sarab lascia coagulare un rarefatto ventaglio di risonanze ed estratti ambientali. La consistenza dell’insieme – profondamente tattile con margini che si mantengono indefiniti anche se sempre a fuoco- è protesa ad erigere figure cinematografiche che invitano ad inoltrarsi in ambienti enigmatici (“Starving Night”, “Hide To Live”) o immergersi  in derive sensoriali inquiete (“Shenavar”, “To The East”). L’oscurità– altro tratto comune alle dieci istantanee del lavoro – a tratti si fa opprimente (“Guise”) generando visioni dark-ambient sempre più algide inclini a lambire territori noise taglienti (Call Me Ishmael”).

Coeso e costantemente in bilico tra profondità celesti e sotterranee, “Straving Night” seduce per una ricchezza di dettagli avvertibile a chi sa accostarsi al suono con devozione per estrapolarne intero il portato immaginifico.

Petar Klanac & ensemble 0 “Pozgarria da”

[Belarri]

Commissionato dall’ensemble 0 in occasione del trentesimo anniversario dell’Istituto Culturale Basco, “Pozgarria da” è stato concepito da Petar Klanac come un omaggio ai concetti di gratitudine, meraviglia e gioia riscontrabili negli scritti di Gilbert Keith Chesterton, rivisitati attraverso la poesia basca. Coadiuvato dagli amici Maria Elena Arteaga e Jose Mari Velez de Mendizabal e con la collaborazione del direttore dell’Istituto Pantxoa Etchegoin, il compositore canadese di origini croate si è immerso nei versi di padre Bitoriano Gandiaga estraendone quattro componimenti da mettere al centro della sua opera musicale.

Da tali premesse prende forma un evocativo itinerario diviso in sette movimenti che combina le parole ad un intreccio di strumenti medievali e organi che ne accompagnano il fluire. La voce è assoluta protagonista di tre di queste tracce, intervallate da un preludio e due interludi – interamente strumentali –  scaturenti dalla manipolazione della trama sonora della composizione principale posta in chiusura. “Maite dut bibizitza”, che con la sua preminenza del suono dell’organo occupa metà della durata del lavoro, rivela la complessità di una costruzione attenta e minuziosa altrimenti poco percepibile nell’incedere rallentato della diluita tessitura utilizzata per i movimenti iniziali.

Il risultato è un paesaggio elegiaco, solenne e a tratti marcatamente gioioso disegnato da Klanac con raffinata eleganza ed eseguito scrupolosamente dall’ensemble 0 diretto da Stéphane Garin e Sylvain Chauveau . Un viaggio in musica unico, profondamente stimolante.

Andrea Parkins   “Two Rooms from the Memory Palace”

[Infrequent Seams]

Un ambiente immersivo in cui tempo e spazio si fondono nella memoria di chi lo attraversa, un luogo al tempo stesso reale ed effimero determinato dalla giustapposizione di stanze sonore attigue e influenzato in tempo reale dalle interazioni possibili. Condensato inizialmente in un’audio-installazione multicanale presentata in anteprima nel 2015 al New York Electronic Art Festival, il progetto di Andrea Parkins trova cristallizzazione in un’uscita discografica mirata a catturarne le dinamiche per riproporle in una dimensione di puro ascolto.

Dalla stratificazione apparentemente casuale di risonanze estratte attraverso processi di produzione e manipolazione diversificati scaturisce  un substrato aurale in costante mutamento, incentrato su una ricerca timbrica che trascende formulazioni armoniche e strutture ritmiche. Le particelle distillate danno origine ad un universo sensoriale estremamente vitale nel quale ci si trova proiettati senza mediazioni, da subito avvolti in sinuose spirali di suono. L’effetto è profondamente ipnotico ed produce un’esperienza totalizzante – seppur parziale, privata com’è della sua componente visuale – attraverso un paesaggio immaginifico potenzialmente infinito.

Gareth Davis “In Vivo”

[IIKKI]

Una lunga suite in sei movimenti a commento di scene in bianco e nero estratte dalla grigia realtà delle prigioni giovanili. Parte dal lavoro fotografico di Klavdij Sluban – documentazione portata avanti a partire dal 1995 – il nuovo dialogo audio-visivo promosso dalla IIKKI di Mathias Van Eecloo che vede Gareth Davis autore della parte sonora. Guidato in cabina di regia dall’esperienza di Giuseppe Ielasi, il compositore e clarinettista di stanza ad Amsterdam è affiancato nella stesura di questa ideale colonna sonora per immagini statiche da un piccolo ensemble formato da Robin Rimbaud/Scanner, Steven R. Smith e Rutger Zuydervelt/ Machinefabriek.

Introdotta da modulazioni sintetiche irregolari che rimandano a certe atmosfere di Christian Fennesz, la trama sonora ideata da Davis è un avvolgente flusso elettroacustico in graduale, lento sviluppo guidato dalla voce degli strumenti acustici. Le prolungate risonanze del clarinetto basso si insinuano tra le tessiture elettroniche (“In Vivo I”) fino ad azzerarle e diventare faro di una materia ammaliante intrisa di echi mediorientali e scandita da inserti ambientali e ipnotici bordoni (“In Vivo II”, “In Vivo III”). La seconda metà del lavoro si tinge di toni oscuri inabissandosi in un notturno strisciante che infine sfocia in una distesa di frequenze ruvide, distorte fino a tramutarsi in scia rumorosa in dissolvenza. È l’ampio spettro delle inquietudini dei luoghi rappresentati nella sequenza fotografica ad essere rappresentato dalla composizione, un viaggio in musica nella profondità di un tribolante universo interiore.

Bruno Duplant and Rutger Zuydervelt “Synchronicité”

[Sublime Retreat]

Un unico dilatato piano sequenza in lieve ma continuo sviluppo, straripante di inafferrabile mistero. È questa la sostanza della nuova collaborazione stimolata dall’estro di Bruno Duplant e che vede coinvolto ancora una volta l’instancabile sperimentatore Rutger Zuydervelt, già co-autore dell’atmosferico “L’incertitude” del 2020.

Punto d’origine del rinnovato sodalizio è una lunga traccia per organo trattato realizzata dal compositore francese e inviata all’alchimista olandese per diventare materia da contaminare. L’approccio proposto dall’intestatario della sigla Machinefabriek ricerca la commistione di elementi contrastanti e si basa sull’interpolazione di frequenze elettroniche ruvide capaci di creare vere e proprie ferite al flessuoso tessuto di base offerto da Duplant. Da questo dialogo stridente scaturisce un paesaggio ibrido per sonorità ed atmosfera, un territorio elettroacustico indefinito che si apre su scenari contemplativi imperniati su bordoni solenni disegnati dall’organo e lentamente virati verso visioni oscure attraversate da nervosi crepitii. Il suono rimane aereo ma si flette costantemente alternando pace luminosa ed inquietudine profonda, privando l’ascoltatore di punti fermi ed invitandolo a lasciarsi trascinare da una marea sensoriale avvolgente e priva di soluzione di continuità.
Un viaggio in musica affascinante fondato sull’abbandono ad un ascolto immersivo profondamente stimolante.

Francis Gri   “Lieve”

[krysalisound]

Dieci delicate istantanee per dare forma ad un’oasi di infinita serenità. Rinunciando ad ogni sovrastruttura stringente, Francis Gri si affida interamente alla sua sensibilità melodica e alle emozioni del presente per plasmare il suo nuovo tracciato ambient, itinerario agrodolce proiettato a definire una placida sequenza di paesaggi sonori di cristallina bellezza.  Affiancando all’abituale chitarra e piano elettrico un ventaglio ampio di ulteriori strumenti acustici, Gri amplia qui la propria tavolozza elettroacustica, imperniata sull’utilizzo di effetti e l’ibridazione con flebili field recording, inseguendo soluzioni formali cangianti. Costanti del viaggio proposto sono una dimensione onirica avvolgente – palesata fin dal titolo della traccia di apertura – e un’atmosfera autunnale – emblematica la foto di copertina -che mettono l’album in diretta relazione con alcuni predecessori quali “Fall And Flares” e “Flow”.
“Lieve” è un lavoro che alterna lucentezza e ombre morbide, un territorio capace di coniugare leggerezza armonica e frequenze ruvide sfiorando declinazioni dissonanti (“Blu assente”) e cupa solennità (“Ruggine sacra”) fino ad arenarsi nel cullante incedere di una infinita risacca pianistica (“Tra le porte”).  Un rifugio aurale accogliente.

THEDAYSAREBLOOD   “Logica dello sciame”

[NON-PERIODIC RECORDS]

Uno iato lungo ben otto anni separa il tassello d’esordio dal secondo atto firmato Thedaysareblood. Nato come duo chitarra/batteria il progetto è adesso intestato al solo Gabriele Santamaria, alchimista sonoro attivo dalla fine degli anni ’90 e artefice di entità sperimentali quali Ordeal e I Burn. Oltre ad essere autore della componente aurale del lavoro il musicista marchigiano si è occupato della sua veste grafica – che ingloba immagini estratte da una personale ricerca fotografica risalente al 2017 – dichiarando così un approccio pluridisciplinare indirizzato alla definizione di tracciati permeati da una marcata attitudine cinematica.

Ad essere ripescata dagli archivi è altresì la materia di base utilizzata per costruire i sette capitoli del disco incastrati in una sequenza immersiva di paesaggi sonori sviluppati sotto un’immutabile vena oscura. Questa densa ombra e la cura maniacale del suono – corroborata dal sapiente contributo di Riccardo Pasini in cabina di regia – costituiscono le costanti capaci di dare coesione ad un itinerario profondamente cangiante, ricco di soluzioni differenti. In effetti le prime quattro tracce possono essere lette come un doppio dittico che alterna senza soluzione di continuità un prima teso e dinamico ad una seconda parte più atmosferica. Il glitch nervoso della futuristica “Dust Smells Like Glucose” si riversa nelle inquietudini dark-ambient di “Breathing By Prejudice” così come l’elettronica scintillante della title-track si spegne nella ruvida distesa drone di “On Adapting To The Abilene Paradox”. Spalmato su una scansione triplice lo stesso schema è applicabile anche alla parte conclusiva dell’album che si schiude con l’ipnotico ambient noise di “Thoradia”. Plasmato con sapienza, “Logica dello sciame” ha il sapore di una colonna sonora abrasiva per una postmodernità in frantumi.

Hannes Buder “Outside Words”

[laaps]

Violoncello, voce e chitarra. Dalla combinazione nuda di questi tre elementi Hannes Buder, musicista tedesco con all’attivo numerose esperienze soliste e collaborative, estrae immagini sonore profondamente vitali in bilico tra classicismo e avanguardia. Una teatralità fragorosa si irradia dalle sei partiture proposte in questo nuovo lavoro prodotto per il progetto laaps, una messa in scena roboante frutto del sovrapporsi di scrittura e improvvisazione.
Dinamiche frammentarie di armonie abbaglianti e incastri ruvidi si condensano in stringati tracciati dallo sviluppo impervio, ma sempre fluido, dominati da risonanze stridenti e modulazioni vocali astratte. Fa eccezione – per durata ma non per atmosfera e costrutto – “No Death And No Regrets”  che con i suoi dodici minuti abbondanti occupa quasi metà dell’intera durata dell’album.
Un viaggio in musica in rapida evoluzione percorso da una tensione costante che non ammette cadute di tono. Suoni per un post-classicismo irruento profondamente vibrante.

Bad Pritt   “EP1”

[Shyrec | Ricco Label]

Affrontare l’assenza, arrendersi alla sua ineluttabilità concedendosi il tempo necessario ad elaborarne le conseguenze. Nasce dall’introspezione profonda il secondo tassello della discografia Bad Pritt cristallizzandosi in una breve sequenza di sette delicate istantanee intrise di dolente contemplazione. Al momento complesso Luca Marchetto fa corrispondere un netto cambio di rotta indirizzato verso risonanze scarne in bilico tra modern classical e sonorizzazione cinematografica, musica per immagini che sbiadiscono lasciando tracce indelebili.
Distante dalle oscure trame elettroniche dell’esordio, il suono si spoglia delle algide astrazioni vocali per farsi veicolare da esili partiture pianistiche che misurano il silenzio coadiuvate dall’elegia sinuosa degli archi e flebili tessiture sintetiche che aleggiano sullo sfondo. Nei vuoti che si aprono tra le diradate note emergono avvertibili echi ambientali e il rumore delle meccaniche dello strumento, componenti imprescindibili per definire una poetica fatta di essenzialità, di una purezza dal sapore orientale che rifugge l’orpello e una sterile drammaticità.
A prevalere è una luminosità morbida ed avvolgente, un bianco candido non a caso elemento dominante dell’accurato packaging ideato da Marco Pandin.  Un percorso emozionale intenso.