Ma Femme est Morte “Anmls”

Simone Trotta per SoWhat

A un assorto ascolto di “Anmls” non si può che sprofondare in quell’ambivalente senso di nostalgia e di ancestrale attrazione che si prova quando si scruta il mare e la vita occulta che lo popola. È in effetti un legame all’ambiente sottomarino ad animare il lavoro d’esordio di Ma Femme est Morte, progetto musicale di Eleonora Capodiferro (chitarra e voce), che in un’intervista descrive l’LP come una «metafora animale» mediante cui è analizzata la vastità dell’umano sentire.

Ad aprire il disco è la sorda percussione di “Crowds”, le cui sonorità ovattate percorse dai rintocchi del basso e della chitarra immette già nelle vibrazioni pelagiche che caratterizzano l’intero album. In “Anmls” trovano spazio diversi pezzi acustici, come “Air, Pt. 1”, in cui la voce si modella sull’ondeggiare di due accordi percorsi da richiami sommersi, “Air, Pt. 2”, intessuta di note metalliche carezzate da una brezza di superficie, o “All Bugs Are Gone”, tenue chiusura del disco.

Percussioni dal timbro esotico sostengono ora la ciclica alternanza di veloci arpeggi e accordi spigolosi di “Dive”, riecheggiante di fragori di spiaggia, ora le flebili corde stridenti e il basso quasi metronomico di “The Wolves (Pt. 1&2)”, attraversata a tratti da emanazioni soniche subacquee. Vari palpitii abissali percorrono l’album, nel quale non mancano parentesi elettroniche, come nelle frequenze oscure e intermittenti di “Animals Never Marry Lovers Surfing”, né increspature di gusto quasi noise, che diventano culminanti nei ritmi incalzanti e distorti di “Electra, Open the Door”.

“Anmls”, che si estende come un flusso quasi ininterrotto, risulta un disco capace di avviluppare e talora urticare come i tentacoli della medusa in copertina, che dà il nome al singolo estratto “Chrysaora”, brano in cui una sezione ritmica scandita e precisa accompagna la nenia ipnotica del cantato intrecciata a gorgoglii melodici. Uscito in piena pandemia, l’album presenta inevitabili picchi dolenti, come il cantato di “Tiny Plastic Dolls”, ma lascia aperta la strada alla speranza, sia quella esistenziale che quella riguardante il futuro del progetto stesso.

Photographs. “Nocturne”

[Disorder Records]

Lorenzo Tomasello per SoWhat

Il quarto lavoro di Photographs. è sorprendente, come l’aneddoto sulla sua creazione, portata a termine in appena sei giornate di solitudine in lockdown. Durante quelle notti di febbrile ispirazione, il caleidoscopico Lucio Leonardi ha reagito alla sventurata perdita di tutto il materiale composto precedentemente per il suo solo-project e intrappolato nell’irreparabile computer che lo conteneva, creando una collezione di nuove tracce che per quarantuno minuti si dimenano al buio.

Photographs. si serve della title-track dell’album, scomposta in tre umori strumentali distinti, per introdurre ed incanalare progressivamente le coordinate sonore presenti nel disco. Al primo frammento, un pianoforte sfumato da atmosfere sintetiche degne di un remix di Sakamoto, segue una sottile pioggia di modulazioni e drum-machine tribali che tremano sull’algida delicatezza del cantato di “Your Emptiness”, per poi frastagliare di glitch e sussurri la fumosa quiete di “Dark” ed ancora far danzare la più irrequieta ed introspettivaMute”, mantra IDM per trascorrere l’ennesima sleepless night. La successiva “Madness and Misfortune” nasce dall’incontro tra  melodie pop e corali con una cerebrale brina house, adagiata su distese ambient sempre più intense e variopinte, perfetto sottofondo per la danza spirituale della sagoma nella copertina di Gaetano Favara, che fluttua allucinata sul chiaroscuro delle sensazioni umane.

Da “Nocturne #2” una industrializzazione ipnagogica si insinua tra le tracce, acque ritmiche travolte alla deriva dalle misteriose onde percussive di “Adrift” e dai beat affogati in continue paralisi di “Consummation of Grief”. Servono le carezze sintetiche di “I Turn to Nothing”  e le creature droniche di “Mama” per trattenere un ultimo respiro prima di immergersi nel climax elettronico di “Confessions”. È in questo bagno modulare che Leonardi si spoglia della propria oscurità, sciolta da un trasporto emotivo che interpreta e vizia le nostre voglie, uditive e non solo. La notte fonde questo plasma sonoro al suo schiumoso strascico, “Nocturne #3”, ultima marea che ci trasporta a riva, al salvifico albeggiare di un pianoforte a coda, ancora in grado di [ri]suonare donandoci riposo.

Northway “The Hovering”

[I Dischi del Minollo]

Simone Trotta per SoWhat

Un vascello solca senza sfiorarlo un mare opalescente e indefinito attraverso brezze psichedeliche e marosi post-rock, in un viaggio che alterna momenti di bonaccia a vere e proprie tempeste sonore: in questo modo si descrive da sé, già dalla sola copertina, “The Hovering” dei Northway.

Il disco, che arriva sei mesi dopo del previsto a causa dell’inattesa pandemia globale, è il secondo prodotto del quartetto, formatosi a Bergamo nel 2014, dopo l’esordio di “Small Things, True Love” del 2017. Tema attorno a cui orbitano i sei brani, interamente strumentali, di cui si compone l’album è il mare, del quale i Northway plasmano una narrazione sonora ampia e multiforme.

Il basso metallico e cadenzato con cui si apre il disco lascia presto spazio a un suono più cupo e ovattato, a sostegno di chitarre che si snodano in limpide volute melodiche o avanzano compresse in distorsione (“Point Nemo”, “Edinburgh of the Seven Seas”). A guidare il flusso del viaggio è la batteria, che scandisce i momenti di stasi e quelli di esplosione alternando ritmiche secche alle scroscianti cascate dei piatti. Segnali tremuli e acuti emergono a tratti dalle profondità, come in “Kraken”, che aggressiva rievoca il terribile mostro marino di cui porta il nome, e “Hope in the Storm”, in cui lontani echi di chitarra rievocano la desolazione dell’alto mare per poi ricompattarsi in bagliori di speranza. La chiusura è affidata a “Deep Blue”, il brano più lungo dell’album, in cui l’ininterrotta marea delle chitarre rievoca la distesa piatta del mare, esplorata sempre più in fondo dall’incalzare del piano e dalla pressione del basso.

Figlio della tradizione post-rock, “The Hovering” scorre fluido per tutta la durata nel suo racconto privo di parole e mira a definire lo spettro sonico di una band in bilico tra nostalgia e voglia di sperimentare, caparbiamente desiderosa di emergere all’interno del panorama musicale italiano.

Violent Scenes “Stimmung”

Lorenzo Tomasello e Simone Trotta per SoWhat

“Stimmung” è il secondo prodotto sonoro uscito dalle officine musicali dei Violent Scenes, poliedrico quartetto pugliese che ha esordito nel 2017 con l’LP “Known By Heart”, ideatore di diverse attività culturali quali uno spettacolo teatrale con la compagnia Teatro delle Rane e uno psych reading sugli scritti di Cesare Pavese, dichiarato ispiratore del disco e della poetica del gruppo. Molto attiva dal vivo, la band si dimostra solida nelle sue esibizioni live, spesso accompagnate da proiezioni video che catapultano totalmente nell’atmosfera visiva suggerito dall’elemento sonoro.

L’EP si articola in tre brani dalle melodie sciolte in atmosfere caliginose, sensazioni scandite da battiti e riverberi intrecciati dalla violenta delicatezza di umori sonori, modulati dalle chitarre e dai pedali ronzanti dei Violent Scenes che con “Stimmung” amplificano il suono della loro umanità.

Nella prima metà dell’opener “Grim July” la solitudine dei fraseggi di chitarra viene avvolta da sperimentazioni ritmiche intermittenti, uniche e frammentate come i ricordi rivissuti dal protagonista del videoclip realizzato da Antonio Stea, interprete visivo dell’intero disco insieme a Stelvio Attanasi. La seconda parte della traccia si lascia guidare dai tremori del synth, su cui si posa l’emozionalità di un cantato arioso, continuamente sfumato dagli acuti vibranti degli amori di una vita.

“Nope Face” inizia percorsa da una cadenza percussiva stilizzata alla base di armonie incalzanti che sgorgano da una chitarra pura. Melodie vocali decise e a tratti graffianti ispirano un senso di alienazione e un’impossibile voglia di evasione, per poi sfociare nel flusso sintetico che accompagna il monologo finale della chitarra.

La chiusura è affidata a “Zebra OPN”, brano che con guizzi fulminei di samples nevrotici reinventa  “Zebra” di Oneohtrix Point Never, a cui il gruppo rende chiaramente omaggio. Voci parallele e aperture dilatano gli scatti del synth e introducono una chitarra che impazza in dispersivi riverberi. Il brano termina con un soffio bruscamente smorzato, che sembra lasciare aperte le prospettive di una continuazione del discorso sonoro di una band sospesa tra la tragicità della dimensione teatrale e la cruda malinconia di ascendenza pavesiana.

Malus “Sexadelic Shooting Star”

Lorenzo Tomasello e Simone Trotta per SoWhat

Fissando la copertina di “Sexadelic Shooting Star” dei Malus, ci si ritrova davanti la prospettiva essenziale di un letto sormontato da una finestra, una stanza derealizzante dai confini lisergici: il luogo perfetto per sonorizzare i sogni. È questa la percezione generale in cui si scivola ascoltando il secondo album del quartetto formatosi a Bassano del Grappa nel 2013 e tornato adesso sulle scene a distanza di tre anni dal precedente “Osimandia”, disco dal quale “Sexadelic Shooting Star” si distanzia innanzitutto per l’introduzione di testi in inglese.

L’album è un sogno ricorrente, che nel riproporre quella tradizione psichedelica iniziata durante un lontano festival hippy, si snoda tra composizioni di accordi allucinati come le distese rosa fenicottero della copertina e tastiere sospese che abbracciano un basso rapido e ovattato dalle fascinazioni funk, come avviene in “Recurring Dream” o in “Lying to Myself”, e tracce lente e tensive come “Saint Lawrence Night”, che spicca per la sua sensualità. Con “Astronaut” sembra di galleggiare nel vuoto cosmico, circondati da tastiere e chitarra fluttuanti, mentre la strumentale “Ice Race” ci riporta sulla terra con fuzz acidi e un sax da trip londinese. Gli oceani di synth si solidificano in chiusura con “Mobius Trip”, in cui il ritmo cadenzato degli strumenti contrasta con la voce fluida.

Una batteria scarna e soffusa sorregge le atmosfere incorporee di un disco da cui lasciarsi trasportare, in bilico tra un tè corretto degli anni ’60 e il ritrovato gusto vintage dei nostri tempi.

Rev Rev Rev “Kykeon”

[Fuzz Club]

Lorenzo Tomasello e Simone Trotta per SoWhat

Ermetismo, incorporeità, esoterismo: è la miscela di queste tre essenze a infondere nel Kykeon proposto dai Rev Rev Rev quell’inconfondibile gusto shoegaze, rinforzato dalla componente stoner, che sta alla base dell’album.

Il quartetto emiliano, nato a Modena nel 2013, e già formato da esperienze concertistiche come quella vissuta a fianco dei Jesus & Mary Chain, condensa in questo disco due generi portanti dei ’90, fatti rivivere oggi anche mediante la sapiente elaborazione di tecniche audio-visive, capaci di ampliare, dal vivo, la percezione della musica del gruppo.

L’album è scandito dai ritmi ossessivi e cadenzati di una batteria secca e di un basso corposo, che costituiscono la salda base su cui poggiano le pesanti distorsioni e il feedback sgranato della chitarra, che si erge piena e maestosa in tracce come in “Waiting for Gödel” e “Clutching the Blade”, o si articola in suoni di gusto quasi psichedelico, come nel caso di “Egocandy”, “Summer Clouds” e “Spots On a Dice”. Elemento onnipresente è il cantato soffuso e lontano, tipicamente shoegaze, che corona il sound ovattato e quasi claustrofobico di un disco certamente capace di farsi spazio nel panorama musicale contemporaneo.

Nouccello “Nouccello”

[Vina Records / Scatti Vorticosi Records]

Lorenzo Tomasello e Simone Trotta per SoWhat

Un’adrenalina sonora in bilico tra plettri consumati ed uno stile di vita: il tempo è illusione. Durante i trenta minuti scarsi del loro omonimo album d’esordio, i Nouccello tracciano, con una non indifferente consapevolezza, una linea che attraversa gli anni ’90, periodo che ha indubbiamente formato i membri del gruppo.

L’album si apre con le atmosfere aggressive di “Piano B” all’interno della quale si amalgamano suoni tipici del noise rock e del post-hardcore, come del resto avviene nelle successive “Vertigine”, “Lo spettro”, percorsa da una frenetica sequenza di accordi distorti, “Specchio riflesso”, in cui si può cogliere l’impronta dei primi Marlene Kuntz, e “Colpisci il mostro”.

Tale violenza sonora è, invece, parzialmente smorzata nelle atmosfere di “Episodio 5: trappola in mezzo al mare”, il cui testo si presenta come una brusca presa di coscienza davanti allo spettro di una tragica realtà. Il disco raggiunge i momenti di maggior quiete con “Alternum pt. 1”, brano strumentale percorso da dissonanze che fanno da base ad una insistente melodia, e con la reprise “Alternum pt. 2”, che terminando in modo alquanto soffuso conclude la parabola sonora discendente del disco.

L’album, nel suo complesso, richiama il panorama caratteristico dei ‘90, iniettando nella scena contemporanea quel sound adrenalinico e distorto che, pur distaccandosi dall’estetica corrente, è ancora capace di farsi apprezzare.