Alchimie sonore

in conversazione con Stefano De Ponti

Immagine che diventa suono, suono che diventa immagine. Quella alla sinestesia è una propensione  capace di essere cristallina suggestione, motore generante di spirali narrative avvolgenti che conducono in universi percettivi nutriti da un immaginario accentratore di stimoli. È un incedere complesso e accidentato, non semplice da portare a termine, ma che diviene dirompente catarsi quando si compie.  Per sviscerarne le dinamiche ci siamo rivolti a Stefano De Ponti, “organizzatore di suoni e immagini”  come lui stesso si definisce, autore  alla costante ricerca dell’abbattimento del margine che separa i diversi piani sensoriali attraverso cui assorbiamo la realtà.

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Come accade in tante sceneggiature, il punto di partenza non sarà l’origine cronologica. “Fin​-​d’Ersástz / 20xx – 2016”, pubblicato nel febbraio del 2017, è da considerare un punto di svolta, un momento cardine di un percorso artistico già fertile ma ancora in divenire. Cosa ti ha spinto a provare a tirare le somme  di ciò che sei fin qui stato? Da cosa è nata questa necessità dall’urgenza evidente?  


“Dunque, era proprio una bestia, se la musica a tal punto lo affascinava? Gli pareva
di veder disegnarsi davanti a lui la via verso un cibo desiderato quanto sconosciuto.”
Franz Kafka, La metamorfosi

In principio fu una visione.

Ancora non ne sapevo nulla e per la verità non so ancora spiegarmi il perché, ma era il periodo in cui chiudevo il radiodramma tratto da “I bei giorni di Aranjuez” di Peter Handke.

La ricerca artistica sulle opere di Handke con Daria Deflorian e Attilio Scarpellini fu un’esperienza molto importante. Un’immagine chiara per una testa confusa. Giornate passate a fare e disfare figure sonore che non finiscono mai – perché non le vedo finite – e a coprire in un istante ciò che avevo fatto fino a quel momento. Da allora si è innescato un approccio alla creazione preciso e in continuo mutamento. L’iniziale sconforto per l’inafferrabile si è trasformato in un elogio dell’impermanenza, nella rivalutazione del processo come pratica bastante e in eterna trasformazione.

Sfuocare e sovraesporre al limite, così da ritrovare il fuoco e i contorni. Educarsi al silenzio, trovarsi nel perdersi. Così ho vinto l’imbarazzo e sono ripartito dall’ascolto del mio primo suono che si è trasformato in un flusso. Alla fine ne sono uscito rassicurato, nella sorpresa scaturita dalla coerenza organica emersa dal risultato e dall’impossibilità e conseguente disinteresse di delimitare il futuro.

Tutto ha poi trovato forma compiuta grazie a Harry Sumner, che nel momento giusto mi ha chiesto un mixtape per Sonospace.org, e a Emanuele Magni, amico e assiduo collaboratore, che ha voluto fare una pubblicazione fisica  con la sua Grotta Records. “Un bisogno di verifica e rassicurazione”, avrei potuto sintetizzare così, ma sono un seguace del “giro lungo”.


Un senso di insoddisfazione persistente ti ha costretto quindi a confrontarti con te stesso per riflettere sulle dinamiche del tuo creare, malgrado la realizzazione di percorsi compiuti come quello di Calce. Ma piuttosto che rimanere vittima di un nulla come perfetta risposta alla mancanza del tutto, per rimanere sulle riflessioni di Carini l’intellettuale, ciò che si è delineato è uno spostamento di senso che ti ha condotto a privilegiare l’emozionalità del fare sull’esattezza della forma compiuta. Un movimento che riporta alla mente la tensione emotiva del non-finito michelangiolesco e che informa il tuo ultimo lavoro condiviso con Elia Moretti. Quanto peso ha avuto su questa scelta la crescente bulimia produttiva che sempre più investe il mondo dell’arte?



L’attuale smania di produrre rende quindi l’artista sempre più indulgente verso se stesso e determina una produzione tendenzialmente artigianale che contempla sempre meno un processo di reale ricerca lessicale. Un punto di vista dal quale mi sembra di capire tu voglia mantenere le distanze. Che importanza riveste in quest’ottica la tua attività nel mondo del teatro e la ricorrente collaborazione con artisti visivi?  Questo rincorrere la poesia come linguaggio trasversale può ritenersi il tuo faro capace di non farti perdere la rotta?


“Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché.
C’è un silenzio profondo ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo.
Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio.”
David Lynch

Il bisogno sfrenato di produrre, se nasce da una reale e sincera spinta espressiva, non porta necessariamente a un impoverimento di contenuto. La fretta e l’esibizionismo sfrenato sì. Ma, come l’appetito da fast-food, è qualcosa di indotto, un falso bisogno, serve ad aumentare i consumi. L’accessibilità e la facilità produttiva aggravate da un processo senza freni di a-criticità e livellamento culturale collettivo, legittimano chiunque a ritenere potenzialmente valida qualsiasi cosa. Il risultato è un accumulo continuo e disordinato, impersonale e dispersivo, dove le aspettative di confronto si accontentano di feedback immediati e superficiali che producono brividi effimeri, inconsistenti e inutili come i contenuti proposti. Io credo che un artista, oggi, abbia la necessità e prima ancora il dovere di interrogarsi su ciò che va ad aggiungere al mondo. Deve ricrearsi situazioni di confronto autentiche e dirette, eventualmente ridotte ma che alimentino incontri reali, estranei alle logiche mediatiche imperanti che sono superficiali nella forma e nel contenuto. Deve smussare l’ego per favorire collaborazioni estese, aperte e critiche, tenendo sempre a mente che è l’opera la cosa più importante. Deve abbandonare la logica indotta dell’accumulo, ritrovare il tempo e lo spazio necessari, alimentando una tensione armonica tra tecnologia e poesia.

Tra il 2007 e il 2008, grazie all’incontro e alla collaborazione con le compagnie AstorriTintinelli, CorteSconta e Compagnia NUT, Riserva Canini e Menoventi, ho intuito che il teatro (di ricerca, quello serio…) sarebbe stato l’ambito migliore in cui sviluppare e nutrire la mia visione poetica. Attraverso il loro lavoro ho scoperto che il processo creativo che dalla costruzione di uno spettacolo porta alla sua restituzione, passa attraverso innumerevoli fasi di studio e di confronto, generando continue scoperte e nuovi materiali, che si ramificano in ulteriori approfondimenti declinabili poi in altre forme.

Ciò che è stato trovato e accumulato nel tempo che ci si è concessi, viene quindi organizzato e condensato, restituito sulla scena dove trova compimento attraverso una narrazione più o meno esplicita. Mutevole ad ogni replica non può essere confezionato, è corpo vivo, che si alimenta di quel patto non scritto stipulato con lo spettatore. L’opera è di fronte al suo fruitore per un tempo prestabilito. Non ci sono distrazioni se non quelle che gli permetterai di concedersi o quelle che lui non riuscirà a lasciare andare. Ma in quel tempo sono lì, l’una per l’altro. Uno scambio, un incontro, reale e presente. In questo senso la pratica teatrale, l’atto performativo organizzato drammaturgicamente, genera stimoli eterogenei continui e alimenta un confronto artistico ampio. Sentivo che se la mia musica avesse seguito criteri analoghi sarebbe incappata più difficilmente in risultati poco interessanti.

In questo senso è stato segnante nel 2011 l’incontro con l’artista figurativo e performer Emanuele Crotti per il quale io ed Eleonora Pellegrini (presenza attiva e costante nella mia vita e nella mia ricerca artistica), abbiamo realizzato le musiche de I candidi, spettacolo ispirato a Il signore delle mosche di Golding.

È a seguito di quell’esperienza che con Eleonora abbiamo iniziato a lavorare seriamente a Physis.

Nata in forma di performance per corpo e suono, ha trovato naturale evoluzione nell’album omonimo pubblicato da ManyFeetUnder.
È giusto definire questo un approdo momentaneo, poiché trattandosi di un lavoro dai confini concettuali aperti siamo certi che nel futuro troverà nuove forme e una nuova restituzione.

Negli ultimi dieci anni ho collaborato con più di dieci compagnie, fatto decine di residenze e con le mie musiche accompagnato centinaia di repliche. Spesso gli incontri e i materiali derivati dagli spettacoli, o accumulati nel cassetto delle improvvisazioni, sono stati successivamente organizzati, diventando pubblicazioni con una loro identità specifica o restituiti in forma di performance autonome, dando a volte risultati più interessanti degli spettacoli da cui provenivano, in una logica di trasformazione e divenire continuo.

Le esperienze di questa prima decade trovano una sintesi pressoché perfetta ne Il mio compleanno, ultimo spettacolo di Riserva Canini, mentre un nuovo ciclo si sta inaugurando con un sodalizio nato poco più di un anno fa con la compagnia milanese Phoebe Zeitgeist, portatrice di quei valori etici, poetici e politici in cui credo fermamente e che mi sta portando verso terre per me ancora inesplorate. Il primo risultato di questo incontro è lo spettacolo Malagrazia per il quale ho curato l’architettura del suono e le musiche, che saranno pubblicate il 21 settembre dall’etichetta svizzera Luce Sia in corrispondenza della festa per il decennale della compagnia.


“Situazioni di confronto autentiche e dirette”. La tua recente produzione ti ha visto spesso protagonista accanto ad altri musicisti e con alcuni di essi collabori con maggiore continuità. Come nascono questi sodalizi? Come e con quali prospettive si evolvono? Cosa determina la volontà di intraprendere questi percorsi condivisi alla ricerca di quel “miracolo” che, per dirla con echi tarkovskijani, trasforma il suono vuoto e slegato dalla realtà in qualcosa capace di penetrare l’animo umano e farlo riverberare?


“Incredibile… non sembra la stessa macchina!”
“Beh non è ancora giunto il momento di cominciare a farci i pompini a vicenda.”
Pulp Fiction, Quentin Tarantino

Le persone si incontrano, si scontrano, le cose accadono, gli eventi si susseguono secondo un “fattore riconoscibilità” spontaneo, emotivo.  È come camminare lungo una linea scura che mi taglia in due da capo a piedi. Una corda magica che separa acqua e fuoco – i miei elementi – che oggi riverbera in equilibrio omeostatico dopo anni di entropia.

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“Pietro, secondo te cosa rappresenta questa immagine?” “Beh, papà, un pesce attaccato alla sua luce!”

“Alchimista dei suoni” così mi chiama un mio caro amico. “Empirico” aggiungo io, definendo così l’attitudine che ha caratterizzato le miei azioni, le mie scelte e la gestione dei rapporti umani e artistici di questi ultimi vent’anni. A volte scriteriata e impulsiva ha generato sodalizi e affetti solidi e duraturi, ma anche insanabili fratture. Con il tempo, le esperienze, gli incontri e lo studio, si è modellata la volontà di cercare e costruire condivisioni reali, aperte. Situazioni di spazio e tempo in cui rafforzare e far crescere la propria individualità partecipando a qualcosa di più grande. Il risultato è di tutti ma non appartiene a nessuno. Recuperare un senso di collettività fondato sul bisogno di un reciproco spronarsi e di avere cura.

1aout

La residenza a Les FAC nel luglio 2015 è stata la svolta finale, poiché durante quell’esperienza è maturata un’etica del lavoro e della vita comunitaria all’epoca in me ancora acerba. In questo senso Calce si è rivelato essere un strumento di selezione, un’opera collettiva di cui sono stato regista, che ha stabilito e regolato rapporti, collaborazioni e metodi di lavoro tutt’ora in essere. Di fatto oggi esiste una rete di persone che ruotano attorno a progetti condivisi, abbracciando idee, obiettivi e spirito critico comuni.


Una tappa quella della residenza a Les FAC che quindi ha segnato l’inizio di un nuovo segmento artistico a cui fa eco la residenza presso Standards come The Verge of Ruin dello scorso giugno. Quale evoluzione hai percepito tra questi due poli? Pensi che si sia plasmato un nuovo punto di svolta o piuttosto si sia consolidato il meccanismo maturato nella precedente esperienza?


Per me il progetto Les Fac è stato ed è ancora un abbraccio che mi scalda senza soffocarmi. La prova che è possibile realizzare un’utopia da cui poi possono nascere nuove utopie da inseguire, proteggere e coltivare e poi altre e altre ancora… Noemie, Eve e Arnaud sono riusciti a farci sentire parte della loro visione, con una passione, una dedizione e un rigore unici. Difficile che passi giorno senza che un pensiero anche fugace non mi rimandi a quel mese, a uno o più volti che ho incontrato. Così come è difficile che passi una settimana senza che mi scriva con qualcuno di loro.

È stato un nuovo inizio sì, un punto di non ritorno che ha segnato una soglia qualitativa umana, etica e artistica verso la quale ho compreso si dovrebbe tendere sempre. Il sodalizio tra me e Shari è nato proprio in quel contesto e The Verge of Ruin porta fisiologicamente in sé quel vissuto, reso in forma compiuta con l’ep Learn to Love Solitude.

È stato del tutto istintivo e naturale per noi progettare la residenza negli spazi di Standards come un momento di condivisione e ricerca aperti, estendendo l’invito a musicisti che stimiamo, diversi per formazione e approccio, in una logica di scambio e stimolo reciproci. Abbiamo così impostato un processo di lavoro che dall’improvvisazione esplorativa si organizzava progressivamente in scene sempre più precise, privilegiando fin da subito la ricerca di un alfabeto comune tra le persone via via coinvolte e una direzione che limitasse la dispersione. Questo ci ha dato la possibilità di preparare facilmente una restituzione pubblica del lavoro svolto nonostante le molte ore di registrazione accumulate.

Durante quei giorni l’apporto concettuale ed estetico di Giuseppe Isgrò di Phoebe Zeitgeist è stato fondamentale. Insieme a lui e agli attori che ha coinvolto abbiamo avviato un nuovo percorso estremamente stimolante di indagine musicale, poetica e performativa, che stiamo sviluppando tutt’ora insieme. Questo ulteriore incontro con Phoebe Zeitgeist ha reso concreta una condizione che inseguo da sempre, ossia poter approfondire con la stessa compagnia teatrale due tipologie di ricerca differenti ma complementari, una più legata alla pratica e a certi codici propri del teatro, l’altra più libera di inseguire un’ibridazione dei linguaggi senza però tralasciare l’aspetto drammaturgico.


Alla luce di tutto ciò come percepisci il tuo presente? Pensi che il tracciato fin qui percorso ti abbia condotto sempre più vicino ad una meta in costante e graduale rivelazione?


Mentre ti scrivo mi sento come voglio, come avrei voluto sentirmi quando tutto è iniziato, in continuo mutamento e senza fretta.

Di questi tempi percepisco il mio presente come una passeggiata in territori inesplorati, dei quali trattengo suoni, immagini, parole e volti sfuggenti… in una condizione di ascolto attivo continuo, ma senza ansie produttive.

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” Caminantes, no hay caminos, hay que caminar “